Una bella lezione magistrale del Prof. Romolo Rossi sul narcisismo, Clitennestra e Medea apre la mia mattinata catanese (finalmente Catania, dopo un bel pò di tempo).
Poi è più forte di me, devo rituffarmi nel pulsare della città che è stata anche mia per tredici anni.
Posteggio agli archi della Marina, e comincio la mia camminata dal mercato all'aperto: la cadenza cantilenante delle voci, il sole che abbacina, la vista e l'odore del pesce fresco, le foto antiche della città, il trovarsi quasi a contatto di pelle con una umanità esuberante, varia, indocile, guizzante; e poi via Etnea, il Duomo con i resti mortali della "santuzza", Agata la martire, anche lei indomabile già da ragazzina.
Entro ed esco dalle librerie che sono state mio riferimento continuo, ne trovo delle altre; e poi le pasticcerie e le gelaterie, i camerieri che continuano a portare granite di mandorla, caffè, limone, gelsi, ai tavolini che si affacciano sul salotto della città; il biancore di Piazza Università, una turista americana pallidissima che si muove come fosse nel deserto, avvolta in un velo leggero che le copre testa e volto. Un vecchietto col vestito "buono", camicia e giacca a maniche lunghe, che cammina lentamente, gracile, a passettini piccoli, e da un momento all'altro sembra cadere. Non cade.
E poi Piazza Stesicoro, e l'inizio dell'altro mercato all'aperto, vestiti e altro: una specie di Chinatown, dove non mancano però africani insieme agli indigeni.
Il chiosco è una tappa obbligata. Chiedo un "completo" con menta: c'è dentro orzata, seltz, limone, anice e menta. Mentre lo assaporo lentamente ad occhi socchiusi, riconciliandomi con l'Universo intero, mi sorprendo a pensare all'incrocio millenario di cromosomi da cui derivo, ed alla memoria incisa nell'inconscio collettivo della mia gente: e mi pare di veder danzare insieme siculi e sicani, greci e fenici, romani, arabi e normanni, ispanici e germanici, e poi ebrei, americani, pakistani, indiani, cinesi e filippini...
Ed ancora Archimede, Gorgia, Empedocle, Stesicoro, Epicarmo, le commedie e le tragedie, Federico II e la scuola siciliana, i Vespri, gli stupri subiti ed i riscatti cercati, le guerre sopportate e le dolcezze vagheggiate, e poi il barocco, e Bellini, De Roberto, Brancati, Verga e i Malavoglia, Pirandello, Tomasi di Lampedusa e il Gattopardo, Garibaldi e i briganti, la mafia e l'antimafia, Falcone, Borsellino, Livatino, Chinnici, Costa, Quasimodo e Fiume, Guttuso e Guccione...
Mi ritorna in mente quanto letto alcuni giorni fa su una rubrica a firma di Corrado Augias: con pensosa compunzione da sacerdote di un disincarnato moralismo amorale, rispondeva ad una lettrice che straparlava (male ovviamente) della Sicilia, ripetendo in sostanza il vecchio clichè della terra irredimibile (chi potrà salvare la Sicilia, più o meno era il senso, se non ricordo male).
Davvero in molti, negli ultimi tre millenni almeno, sono venuti cercando di "salvarci". Io non sento il bisogno di altri salvatori.
Se c'è una cosa che sto imparando da questa metafora gettata nel Mediterrraneo tra fuoco del vulcano e acqua di mare che è la mia terra, è che qui è dato di conoscere , fino ai limiti della vertigine, la carne di cui siamo fatti. E chi ha conosciuto la carne può dannarsi perdendosi in essa senza mai trovarla davvero, o redimersi degustandone in pieno e sposandone il mistero.
Questa redenzione è la sola salvezza in cui credo, e me la dà qualcuno che da Logos ha accettato di farsi carne.
Nulla a che fare con Augias, con rispetto parlando...