Assisto con una specie di vertigine e con un crescente senso di smarrimento alla "mutazione culturale" che si sta verificando in una notevole porzione (spero, ma non ne sono sicuro, non maggioritaria), dei miei Colleghi medici.
Vi è infatti, nel drammatico dibattito in atto sulla dignità del vivere e del morire, un vigoroso e spasmodico tentativo di respingere come "ideologiche" le posizioni culturali che non sono organiche ad una autoreferenziale e presuntuosa "scientificità", di stampo neopositivistico, che ritiene di essere in grado da sola di determinare cosa è giusto e cosa è sbagliato in campo medico e bioetico, ed in definitiva, quindi, tra le righe, di poter spiegare senza indebite interferenze il mistero dell'essere umano.
Ma quale scienza può penetrare nell'abisso del vissuto di un uomo? Di certo non la scienza che si occupa del körper , il corpo fisico, che è l'unico realmente e con ragionevole certezza indagabile con gli strumenti diagnostici a nostra disposizione, compresi quelli più sofisticati (TAC, RMN, PET, Spect e così via).
Se si vuole indagare il corpo animato (Leib), e quindi la persona umana nel suo complesso, fatta di corpo e psiche indissolubilmente "intrecciati", le cose si complicano parecchio.
Quando infatti, ad esempio, si analizzano le risposte delle diverse aree cerebrali a diversi stimoli, si indagano fenomeni interessantissimi e di estremo fascino, ma che vanno considerati, secondo la mia umilissima opinione (oltre che secondo quella di qualcuno assai più autorevole di me), come "correlati biologici" del vissuto del soggetto indagato; penso, e non mi pare di essere il solo, che una insidia epistemologica particolarmente grave, anche per le sue possibili ricadute pratiche, sia quella di pensare di indagare le esperienze vissute (erleben) di una persona quando se ne osservano invece solamente i correlati biologici, come ad esempio un'area del cervello che si attiva e consuma più glucosio se si fanno calcoli matematici, o quando si guarda un film comico.
Mi pare che per evitare questa insidia ci possa essere di aiuto la cara vecchia scuola fenomenologica.
Questa cerca di desumere i vissuti autentici di una persona da quello che lei stessa racconta o esprime in vari modi, o di intuirli eideticamente attraverso un processo di tipo empatico, che presuppone la sospensione del giudizio (epoché).
Se la stessa persona non è in grado di comunicare, come ad esempio in alcune invalidità gravi e gravissime, compresi gli stati vegetativi, penso che un medico che ritenga di avere un approccio scientifico rigoroso dovrebbe soltanto dire se e quali lesioni sono riscontrabili oggettivamente, tramite esami strumentali e dati clinici, e quali funzioni sono più o meno compromesse. Non dovrebbe assolutamente inferire, se non in termini esplicitamente probabilistici, quello che il paziente effettivamente esperisce.
Chi può dire con certezza cosa vive realmente una persona affetta da demenza in fase avanzata, od una persona affetta da ritardo mentale grave, o una persona catatonica, o in coma, o ancora in stato vegetativo?
Sarebbe più onesto, molto meno confusivo, e più dignitoso, dire umilmente "non lo so".
Anche questo atteggiamento di prudenza avrebbe delle ricadute culturali e pratiche, ma ben diverse da quelle che seguono ad affermazioni piene di vuota sicumera come "certamente non prova dolore", o "non si rende conto di quello che succede", o peggio ancora "è come un vegetale".