Scrivere su questa specie di lavagna affacciata sul mondo mi porta a ricordare cose ormai quasi sepolte dall'incalzare caotico del quotidiano, ma che continuano ad avere un sapore per me incancellabile.
Mi sono tornate in mente, ad esempio, le emozioni forti che ho provato una sera, quando sono stato invitato ad assistere ad una incredibile rappresentazione teatrale, frutto di diversi mesi di lavoro di teatroterapia, messa in scena da pazienti ed operatori della comunità dove avevo lavorato sino ad un anno prima.
A suo tempo ho scritto delle cose per elaborare quelle emozioni, e le ho spedite per fax alla mia vecchia, splendida équipe di quella comunità, per ringraziarla di avermi invitato.
I disgraziati hanno inviato, a mia insaputa, quelle cose che avevo scritto per loro ad una rivista europea, "Catarsi.Teatri delle diversità", che le ha pubblicate (anno 8 n. 25, aprile 2003).
E' stata per me una sorpresa veramente bella, soprattutto per l'affetto e la stima che mi hanno dimostrato con questo gesto.
Ripropongo qui l'articolo per i miei due o tre lettori, che nel frattempo pare siano un pò aumentati di numero..
P.S.
I versi citati nella parte conclusiva sono già stati citati in un altro post di questo blog. Pazienza...
Risonanze, era il titolo dello spettacolo teatrale. E come potrei, io che non sono altro che un viaggiatore errante nella duplice etimologia del termine, parlare di quello che ho visto e sentito, in termini astrattamente scientifici, o freddamente psicologico-psichiatrici-terapeutici-riabilitativi-risocializzanti-antisettici-diuretici-coleretici…
No, non voglio né posso essere psichiatra, medico, o esperto di alcunchè, nello scrivere di ciò che non è de-scrivibile, che sfugge alle definizioni, che si fa beffe di chi cerca di circo-scriverlo; in ultima analisi, di ciò che è semplicemente umano, tanto profondamente e veramente umano, da potere essere in-scritto nella sfera del sacro.
Non c’è altro da fare, quando si percepisce questo, che “togliersi i calzari” di fronte al roveto ardente, ed umilmente ascoltare ascoltandosi, per poter poi balbettare qualcosa che non abbia troppo il sapore della plastica…
Quali risonanze, quindi, per me che ho vissuto per un anno accanto a molte di queste “lune inopportune”, che oggi incontro ancora dopo un altro anno, e che vedo danzare, cantare, recitare, parlare anche con il silenzio, un silenzio così potente che urla come l’uomo di Munch?
C’è Salvatore, smagrito, sicuro, quasi altero nel suo incedere, direi professionale nel modo di essere sul palco; e mi domando se riuscirei, in questo contesto, a ritovare ed identificare i deficit cognitivi che pure ero così sicuro … mah.
C’è Liborio, con la sua carica di vitalità, così drammaticamente antinomica al vuoto siderale di affetti da cui è stato circondato sino a non molto tempo fa; ma dove sono la rabbia e l’aggressività, uniche compagne fedeli del suo esistere, mentre fasci di luce sottolineano i suoi salti ed i suoi passi nel buio della scena?
C’è Giusi, con il suo volto buono, sereno e rasserenante, di madre ed infermiera, che gioca e si diverte; chissà quante volte ha il tempo di farlo, lei che mi è sempre apparsa come il mandala del lavoro e dell’oblazione…
C’è l’altro Salvatore, reduce da una permanenza di svariate decadi in strutture manicomiali che ha spento ogni luce dal suo sguardo, tanto da non fargli capire più dove si trova, e da fargli rispondere a chiunque in maniera stereotipa “se mi mannassero ‘n casa”, “se mi mandassero a casa”; ho per la prima volta l’impressione che sappia cosa sta facendo, quando cammina sulla scena, affermando, così semplicemente, di esistere…
C’è Maria Rosa, esile, minuta, con il suo carico di fatica, traversie, aspettative tradite, sorridente dignità, che polverizza in un assolo di Mina l’idea stessa che la vita possa rubarti la bellezza…
C’è Maria Rita, che dice parole di mistero in un fragile e lungo tubo flessibile, la cui estremità opposta viene poggiata all’orecchio di alcuni spettatori: capiranno la voce esile di chi ha avuto il collo torto dalla violenza e dall’ignoranza, prima ancora che dalla distonia causata da vecchi farmaci neurolettici, ma che ha conservato, a dispetto del male e di chi fa male, diritta e piena la propria dolcezza, la propria mitezza ed una innocenza che semplicemente ignora la malizia?
C’è Nunny, vero uragano di energia, sguardo limpido e diretto, imperativo, di chi la vita la combatte ogni giorno, e sa che troppi dipendono dal suo coraggio per potersi permettere di issare bandiera bianca; è regale il suo portamento e l’armonia dei suoi gesti, quando sulle note improvvisate e vibranti del trio Jazz danza il dolore e la gioia, l’amore e la solitudine, l’offesa ed il perdono, la malattia e la vita…
C’è Vincenzo, che declama versi e racconta sé stesso, e la voce è tanto forte e sicura quanto il cuore è debole, dubitante e ferito…
C’è Romeo, chiuso nel bozzolo dei suoi deliri (troppo dolorosa è la realtà, da togliere il sonno e la ragione), che nel centro della rappresentazione comincia a chiamare il padre adottivo “papà… papà… papà…”, e viene in mezzo al pubblico, lo cerca, lo prende per mano, lui imbarazzato, impaurito, disorientato, e lo conduce in un improvviso silenzio carico di lacrime abortite verso il palco, verso i suoi compagni di sventura-avventura, a disvelargli il suo mondo e la cifra del suo bisogno di contatto pieno; sembra dirgli, lui che invece vorrebbe essere rassicurato, “non avere paura, ci sono io a guidarti nel mio inferno…non permetterò, io che mi sono perso nel mare del silenzio pieno di parole, che tu possa perderti…ci sono io a tenere la tua mano grande e smarrita…non avere paura, papà, del mio dolore, non permettere che la paura ci allontani ancora…”
E poi ci sono io, l’umidore fino a questo momento inconsapevole degli occhi, e volti e parole ed ancora silenzi, passati e presenti, che ritornano come onde nella risacca, a ricordarmi che anch’io ho viaggiato su questa nave, e tutti sono stati miei compagni di viaggio, e mi hanno guarito dalla brutta, folle malattia di credermi sano… e per un curioso scherzo di associazioni bislacche, mi tornano alla mente alcuni versi di un canto Navajo, il cui testo sta scritto davanti ad una delle visioni di più potente bellezza che io conosca, il Canyon de Chelly:
nella bellezza che mi circonda
io cammino…
ascolta, odora il pungente ginepro,
senti il potere gentile della bellezza.
L’antica Roccia Nera si imprime
sull’orizzonte lontano.
Una nuvola nera in alto significa
che la pioggia arriverà presto…
C’è purezza e forza qui,
e luoghi sacri per gli uomini…
Luoghi importanti nell’unità
di terra e cielo e di tutte le cose…
sono veramente suo figlio…
Io sono assolutamente figlio della terra.
Mi sono tornate in mente, ad esempio, le emozioni forti che ho provato una sera, quando sono stato invitato ad assistere ad una incredibile rappresentazione teatrale, frutto di diversi mesi di lavoro di teatroterapia, messa in scena da pazienti ed operatori della comunità dove avevo lavorato sino ad un anno prima.
A suo tempo ho scritto delle cose per elaborare quelle emozioni, e le ho spedite per fax alla mia vecchia, splendida équipe di quella comunità, per ringraziarla di avermi invitato.
I disgraziati hanno inviato, a mia insaputa, quelle cose che avevo scritto per loro ad una rivista europea, "Catarsi.Teatri delle diversità", che le ha pubblicate (anno 8 n. 25, aprile 2003).
E' stata per me una sorpresa veramente bella, soprattutto per l'affetto e la stima che mi hanno dimostrato con questo gesto.
Ripropongo qui l'articolo per i miei due o tre lettori, che nel frattempo pare siano un pò aumentati di numero..
P.S.
I versi citati nella parte conclusiva sono già stati citati in un altro post di questo blog. Pazienza...
Risonanze, era il titolo dello spettacolo teatrale. E come potrei, io che non sono altro che un viaggiatore errante nella duplice etimologia del termine, parlare di quello che ho visto e sentito, in termini astrattamente scientifici, o freddamente psicologico-psichiatrici-terapeutici-riabilitativi-risocializzanti-antisettici-diuretici-coleretici…
No, non voglio né posso essere psichiatra, medico, o esperto di alcunchè, nello scrivere di ciò che non è de-scrivibile, che sfugge alle definizioni, che si fa beffe di chi cerca di circo-scriverlo; in ultima analisi, di ciò che è semplicemente umano, tanto profondamente e veramente umano, da potere essere in-scritto nella sfera del sacro.
Non c’è altro da fare, quando si percepisce questo, che “togliersi i calzari” di fronte al roveto ardente, ed umilmente ascoltare ascoltandosi, per poter poi balbettare qualcosa che non abbia troppo il sapore della plastica…
Quali risonanze, quindi, per me che ho vissuto per un anno accanto a molte di queste “lune inopportune”, che oggi incontro ancora dopo un altro anno, e che vedo danzare, cantare, recitare, parlare anche con il silenzio, un silenzio così potente che urla come l’uomo di Munch?
C’è Salvatore, smagrito, sicuro, quasi altero nel suo incedere, direi professionale nel modo di essere sul palco; e mi domando se riuscirei, in questo contesto, a ritovare ed identificare i deficit cognitivi che pure ero così sicuro … mah.
C’è Liborio, con la sua carica di vitalità, così drammaticamente antinomica al vuoto siderale di affetti da cui è stato circondato sino a non molto tempo fa; ma dove sono la rabbia e l’aggressività, uniche compagne fedeli del suo esistere, mentre fasci di luce sottolineano i suoi salti ed i suoi passi nel buio della scena?
C’è Giusi, con il suo volto buono, sereno e rasserenante, di madre ed infermiera, che gioca e si diverte; chissà quante volte ha il tempo di farlo, lei che mi è sempre apparsa come il mandala del lavoro e dell’oblazione…
C’è l’altro Salvatore, reduce da una permanenza di svariate decadi in strutture manicomiali che ha spento ogni luce dal suo sguardo, tanto da non fargli capire più dove si trova, e da fargli rispondere a chiunque in maniera stereotipa “se mi mannassero ‘n casa”, “se mi mandassero a casa”; ho per la prima volta l’impressione che sappia cosa sta facendo, quando cammina sulla scena, affermando, così semplicemente, di esistere…
C’è Maria Rosa, esile, minuta, con il suo carico di fatica, traversie, aspettative tradite, sorridente dignità, che polverizza in un assolo di Mina l’idea stessa che la vita possa rubarti la bellezza…
C’è Maria Rita, che dice parole di mistero in un fragile e lungo tubo flessibile, la cui estremità opposta viene poggiata all’orecchio di alcuni spettatori: capiranno la voce esile di chi ha avuto il collo torto dalla violenza e dall’ignoranza, prima ancora che dalla distonia causata da vecchi farmaci neurolettici, ma che ha conservato, a dispetto del male e di chi fa male, diritta e piena la propria dolcezza, la propria mitezza ed una innocenza che semplicemente ignora la malizia?
C’è Nunny, vero uragano di energia, sguardo limpido e diretto, imperativo, di chi la vita la combatte ogni giorno, e sa che troppi dipendono dal suo coraggio per potersi permettere di issare bandiera bianca; è regale il suo portamento e l’armonia dei suoi gesti, quando sulle note improvvisate e vibranti del trio Jazz danza il dolore e la gioia, l’amore e la solitudine, l’offesa ed il perdono, la malattia e la vita…
C’è Vincenzo, che declama versi e racconta sé stesso, e la voce è tanto forte e sicura quanto il cuore è debole, dubitante e ferito…
C’è Romeo, chiuso nel bozzolo dei suoi deliri (troppo dolorosa è la realtà, da togliere il sonno e la ragione), che nel centro della rappresentazione comincia a chiamare il padre adottivo “papà… papà… papà…”, e viene in mezzo al pubblico, lo cerca, lo prende per mano, lui imbarazzato, impaurito, disorientato, e lo conduce in un improvviso silenzio carico di lacrime abortite verso il palco, verso i suoi compagni di sventura-avventura, a disvelargli il suo mondo e la cifra del suo bisogno di contatto pieno; sembra dirgli, lui che invece vorrebbe essere rassicurato, “non avere paura, ci sono io a guidarti nel mio inferno…non permetterò, io che mi sono perso nel mare del silenzio pieno di parole, che tu possa perderti…ci sono io a tenere la tua mano grande e smarrita…non avere paura, papà, del mio dolore, non permettere che la paura ci allontani ancora…”
E poi ci sono io, l’umidore fino a questo momento inconsapevole degli occhi, e volti e parole ed ancora silenzi, passati e presenti, che ritornano come onde nella risacca, a ricordarmi che anch’io ho viaggiato su questa nave, e tutti sono stati miei compagni di viaggio, e mi hanno guarito dalla brutta, folle malattia di credermi sano… e per un curioso scherzo di associazioni bislacche, mi tornano alla mente alcuni versi di un canto Navajo, il cui testo sta scritto davanti ad una delle visioni di più potente bellezza che io conosca, il Canyon de Chelly:
nella bellezza che mi circonda
io cammino…
ascolta, odora il pungente ginepro,
senti il potere gentile della bellezza.
L’antica Roccia Nera si imprime
sull’orizzonte lontano.
Una nuvola nera in alto significa
che la pioggia arriverà presto…
C’è purezza e forza qui,
e luoghi sacri per gli uomini…
Luoghi importanti nell’unità
di terra e cielo e di tutte le cose…
sono veramente suo figlio…
Io sono assolutamente figlio della terra.